Oggetto:  
  Commento al progetto di DDL di modifica al TULPS in materia di porto e detenzione di armi  ( XIV Legislatura Senato della Repubblica - DDL 3650 )  
     
  Il testo del progetto di Disegno di Legge governativo approvato dal Consiglio dei Ministri risulta piuttosto innovativo rispetto alle stesure precedenti, provenienti dal Ministero dell’Interno, e legate ai lavori della c.d. “Commissione Pioletti”.  
  Diversi sono, infatti, i punti ove sono stati eliminati veri e propri errori giuridici, a suo tempo sottolineati, e dove norme inutilmente punitive sono state espunte, mentre alcuni suggerimenti formulati sono stati nel frattempo raccolti.  
  Il fatto, tuttavia, che il testo sia stato reso migliore non lo rende tale da poter essere considerato opportuno e desiderabile.  
     
  Esso infatti contiene ancora alcuni elementi di illogicità e di probabile illegittimità costituzionale.  
     
  Con il nuovo testo dell’art.42 TULPS, introdotto dall’art.3 comma 1 del DDL, Diviene ordinario il ricorso alle prescrizioni aggiuntive di cui all’art.9 TULPS. Ciò significa che secondo il disposto il prefetto o il questore potrebbero introdurre discrezionalmente delle prescrizioni speciali, le più varie, nelle licenze di porto d’arma. Così, per esempio, al titolare di licenza di porto d’arma per uso caccia potrebbe essere vietata la detenzione di armi corte, o di armi a canna rigata, o l’acquisto di munizioni a palla, secondo il libitum del rilasciante, senza che tale discrezionalità sia limitata da alcuna finalità se non un generico “pubblico interesse”, che potrebbe anche essere economico, politico, amministrativo, o contabile. È evidente che con tale disposizione si è voluta aggirare la legge, con l’intenzione di realizzare a livello amministrativo ciò che a livello normativo non si è avuto il coraggio di proporre: una segmentazione delle licenze, riservando le armi corte ai titolari di porto d’armi per difesa personale, le armi da caccia ai cacciatori, le carabine agli sportivi, e così via. Tutto ciò senza alcuna garanzia per il cittadino, a livello legislativo, contro l’arbitrio del funzionario o dell’Ufficio, e sul rispetto del principio di uguaglianza. Inoltre, per introdurre limitazioni generali a tutti i titoli sarebbe sufficiente un regolamento emanato con decreto del Ministro dell’interno. È facile immaginare quale sia la portata del potere di compressione del settore e della libertà dei cittadini in tal modo attribuito alla mera discrezionalità dell’amministrazione dell’Interno.  
     
  Dipoi, la possibilità di rifiuto della licenza di porto d’armi (di ogni tipo) a chi abbia riportato una qualsivoglia condanna di qualsiasi genere, appare illogica e irrazionale, poiché porterebbe a rifiutare, per esempio, la licenza di porto ad uso caccia a chi abbia compiuto un abuso edilizio, o abbia riportato una condanna con decreto penale ad una sanzione pecuniaria per la violazione del Codice della Strada. Si tratta chiaramente di un espediente per limitare le licenze rilasciate, che determinerebbe una ingiustificata discriminazione di alcuni cittadini rispetto ad altri, non essendo funzionale il requisito alla concessione della licenza.  
     
  Inoltre, l’equiparazione della sentenza pronunciata su richiesta delle parti alla sentenza penale di condanna contrasta con le norme generali del Codice penale e con la natura stessa del patteggiamento, mentre in molti casi farebbe venir meno la funzione deflativa dell’istituto.  
     
  È da sottolineare che tali possibilità di rifiuto sono estese anche alle licenze di trasporto ed al nulla osta all'acquisto e alla detenzione di armi, e, quindi, a tutte le licenze in materia di armi, con esclusione della vendita.  
     
  L’attribuzione ad un atto meramente amministrativo (Decreto interministeriale) della competenza a definire non solo i criteri e i modi di certificazione dei requisiti psicofisici per il rilascio delle licenze, ma anche la frequenza delle certificazioni stesse, risulta in contrasto con gli artt. 23 e 97 della Costituzione, e con la normativa generale di riferimento sul procedimento amministrativo (legge 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.i.). Tutti gli adempimenti relativi ad un procedimento amministrativo devono infatti essere definiti dalla legge, mentre al regolamento può essere demandata esclusivamente la disciplina di dettaglio, e non mai la definizione del numero (e quindi della frequenza) degli adempimenti medesimi.  
     
  Inoltre, secondo una logica incomprensibile, i requisiti per la detenzione e quelli per il porto vengono del tutto equiparati, sia sotto il profilo della abilità psicofisica, sia in relazione alla capacità tecnica al maneggio delle armi.  
     
  Il comma 4 del rinnovato art.43 TULPS darebbe la facoltà al Prefetto di introdurre il fantomatico istituto della “detenzione per affezione”, per la quale le certificazioni non sarebbero necessarie, ma che comporterebbe, assieme all’ovvio divieto di detenzione delle munizioni, anche il “divieto di impiego delle armi”, secondo una dizione che occorrerebbe chiarire, soprattutto per quelle armi che non sono da sparo, o per quelle le cui munizioni sono di libera vendita (aria compressa superiori ai 7.5 joule). In generale, occorre dire che l’applicazione del disposto alle armi bianche risulta improponibile, mentre esso avrebbe dovuto essere limitato alle armi comuni da sparo.  
     
  Ad un atto amministrativo è demandata, inoltre, la facoltà di determinare le misure minime di sicurezza per la custodia delle armi (art.6 comma 1 lett.(a) del testo). Tuttavia, la semplice menzione di tale facoltà non è sufficiente per considerare come attribuito il potere di emanare tali disposizioni di dettaglio, in quanto, come è noto, ai sensi dell’art. 17 comma 3 legge 23 agosto 1988, n. 400, possono essere adottati regolamenti ministeriali nelle materie di competenza solo “quando la legge espressamente conferisca tale potere”, mentre una normazione senza specifica attribuzione violerebbe il principio di legalità in senso formale.  
     
  Permane l’irrazionale e poco chiaro riferimento al requisito della “buona condotta” per il rilascio delle licenze; a parte ogni riferimento all’abrogato relativo certificato, e alla giurisprudenza costituzionale in materia, sembra impossibile definire oggettivi criteri di valutazione in merito, poiché tale “buona condotta” non si comprende cosa sia, né cosa possa intendersi a riguardo; sembra invece che in merito si sia voluta apparecchiare una scatola vuota, da riempire a cura dell’amministrazione nella eventualità di voler negare una licenza senza una specifica motivazione. Difatti, ogni elemento di “irregolarità” o “anormalità” nel comportamento di un individuo, che potrebbe costituire elemento di dubbio nella sua capacità di detenere e portare armi da fuoco, rientrerebbe nella attuale previsione dell’art. 39 TULPS, che attribuisce all’Autorità la facoltà, diremmo il dovere, di ritirare, e quindi di non rilasciare, le licenze in materia di armi a chi sia ritenuto capace di abusare delle armi stesse, dizione ripetuta nel testo in esame, all’interno della quale possono sussumersi tutte le situazioni di dubbio e di pericolo che sia possibile nella pratica incontrare. Il requisito della “buona condotta” non è perciò solo inutile, ma certamente foriero di un notevole ed inutile contenzioso.  
     
  Per inciso, non si vede quale ratio abbia l’estensione della possibilità di portare armi senza licenza “agli ufficiali superiori in servizio delle forze armate”, dal momento che essi, a differenza degli ufficiali di pubblica sicurezza, non possiedono alcuna competenza nell’ambito dell’ordine pubblico, né, al contrario dei magistrati, esercitano funzioni pubbliche funzionalmente richiedenti una particolare tutela della persona. In questo caso, non solo la norma viene ad istituire un mero privilegio, ma amplia irragionevolmente la categoria di coloro i quali possono detenere e portare armi senza alcun controllo sulla loro salute fisica e mentale  
     
  L’art. 8 comma 1 intende effettuare una “sanatoria” in merito alle armi acquisite in forza di un titolo autorizzatorio valido, e successivamente non denunciate all’Autorità di P.S. competente. Tale affermazione normativa lascia esterrefatti: rappresenta, infatti, una esplicita affermazione, da parte del Ministero dell’Interno, della incapacità ad effettuare i controlli incrociati tra le dichiarazioni degli armieri, e i relativi registri, e le denuncie di acquisto e detenzione dagli interessati inoltrate ai medesimi Uffici dello stesso Ministero. Tale “confessione” la dice lunga sulla capacità degli stessi di procedere ai controlli sui permessi rilasciati, e sulla permanenza dei requisiti dimostrati al rilascio.  
     
  In generale, al di fuori delle considerazioni di ordine particolare, deve considerarsi:  
     
 
  1. il testo non opera una particolare azione di semplificazione amministrativa, comportando nuovi e ulteriori adempimenti per i cittadini, e un maggiore carico per le amministrazioni competenti, in contrasto con la legislazione sul procedimento e sulla riforma della P.A.
  2. Viene invece reiterata l’esiziale opera di stratificazione delle diverse discipline, che renderebbe ancora più confuso e di difficile applicazione il quadro normativo di riferimento, generando una conseguente maggiore incertezza applicativa ed un successivo contenzioso, amministrativo e penale. In particolare, il mancato coordinamento con le norme della legge 18 aprile 1975, n. 110, è destinato ad aggravare la già grande l’incertezza nell’applicazione della disciplina.
  3. La discrezionalità dell’amministrazione in merito alla definizione dei requisiti e al rilascio delle licenze viene smisuratamente ampliata, come abbiamo visto, anche oltre i criteri di legittimità che l’ordinamento prevede. Ciò restringe gli spazi di libertà del cittadino, senza che a ciò faccia fronte un progresso della qualità dei processi o un miglior governo del settore.
  4. Sembrerebbe che i problemi dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza in materia di armi si vogliano risolvere non operando un più attento controllo sulle licenze rilasciate, ma riducendo il numero complessivo delle stesse, attraverso già illustrati espedienti di vario genere.
  5. Il testo, così come è formulato, rappresenta l’ennesima “occasione perduta”, in quanto non opera la semplificazione necessaria ed auspicata, non chiarisce ma allarga le “zone grigie” della disciplina attuale, non interviene nella innovazione della disciplina, adeguandola ai tempi, non riflette a sufficienza sulle esigenze del settore sportivo armiero, e sulla necessità di assicurare agli operatori del comparto produttivo un sicuro e stabile quadro di riferimento normativo.
  6. Le carenze del testo sono certamente imputabili al fatto che tutti gli operatori del settore sono stati esclusi dalla possibilità di fornire un contributo, anche consultivo, alla formulazione del testo: nelle rarefatte atmosfere delle sale dei Ministeri si perde spesso la capacità di inquadrare i problemi, e di fornire soluzioni semplici, efficaci e possibili. In venir meno dell’apporto di chi i problemi li vive, dalla parte del cittadino e dell’operatore, non può che generare soluzioni parziali e astratte, inutilmente punitive, di difficile attuazione e incapaci di ottenere lo scopo prefisso.
 
 

Prof. Ranieri de Maria

 
  Roma, 1 dicembre 2005